Come stanno le cose. Il mio Lucrezio, la mia Venere
- Autore: Piergiorgio Odifreddi
- Genere: Scienza
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2014
Il De rerum natura di Tito Lucrezio Caro è un poema risalente al 50-55 a.C. e molto probabilmente rimasto incompiuto per la morte del suo autore, e potrebbe essere, in un certo senso, definito un poema “didattico”, in quanto non si occupa di eroi e leggiadre fanciulle, ma di fenomeni naturali, riproponendosi di spiegare, con la forza della scienza e della ragione e contrapponendola alla superstizione della religione, tutti gli accadimenti naturali che caratterizzano la nostra vita, la conformazione umana, la flora, la fauna, i fenomeni metereologici, le calamità naturali. Pubblicato per iniziativa di Cicerone dopo la morte del suo autore, fortemente osteggiato dai poteri religiosi per la sua visione epicurea del mondo, il De rerum natura fu, nel corso dei secoli successivi, contestato e trascurato, fino a cadere nell’oblio.
Fu Poggio Bracciolini, nel 1417, a rintracciarne una copia, nella biblioteca di un monastero tedesco. Il poema tornò allora a divulgare la sua dottrina di straordinaria modernità. In retrospettiva, è curioso osservare come vi siano autori vissuti durante il periodo di oblio (lo stesso Dante, ad esempio) che presentano, nei loro scritti, singolari affinità con l’opera di Lucrezio, tanto da pensare che abbiano potuto avere accesso quantomeno ad alcuni frammenti di essa. Certo è che il suo autore, oltre a ricalcare, nella descrizione della peste di Atene, le orme del suo predecessore Tucidide, che fu il primo a parlare della malattia non come di una punizione divina, ma dal punto di vista medico/scientifico (Lucrezio, dal canto suo, pur riprendendo tale visione, vi aggiunge molta più partecipazione emotiva), si ispira fortemente a Epicuro, da lui innalzato quasi al rango di dio.
Un dio, s’intende, in senso figurato, in quanto la dottrina che Lucrezio ha mutuato da Epicuro è quanto di più distante dalla religione possa esistere: essa si fonda, infatti, sulla non ammissione dell’immortalità dell’anima, sul rifiuto degli dei, sulla teoria dell’aggregazione atomistica e del vuoto, sulla spiegazione dei fenomeni naturali e sulla liberazione dalla paura della morte. È assurdo averne paura, afferma Epicuro, poiché:
“Quando noi ci siamo ella non c’è, quando lei c’è noi non ci siamo più”.
Lucrezio abbraccia in pieno le sue dottrine, costruendo, nel suo poema, una spiegazione razionale e dettagliata di tutto ciò che si trova in terra, in cielo e in mare, nella quale non c’è posto per gli dei, che al limite vengono ironicamente descritti come languenti nel loro paradiso e totalmente incuranti dei fatti degli uomini. Non c’è altresì posto per l’ignoranza e per la superstizione, e neppure per l’amore, che, con una visione piuttosto cinica ma molto attuale, viene descritto come un puro soddisfacimento dei sensi al quale si cerca di dare una veste più “nobile”. Il tutto annaffiato da una buona dose di ironia, che in Lucrezio non difettava.
Anche Piergiorgio Odifreddi, il “matematico impenitente”, risulta esserne ben fornito: è anche per questo che il piglio con il quale traduce, spiega e commenta il “De rerum natura” appare estremamente affine a quello del suo autore. In Come stanno le cose. Il mio Lucrezio, la mia Venere (Rizzoli, 2014) Non manca certo di “bacchettare” le sue imprecisioni, né di lodarlo quando egli stesso ammette i propri limiti, costruendo una sorta di “collaborazione” a distanza fra antichità e attualità che, se ce ne fosse bisogno, aggiunge nuova linfa alla sua opera.
Accattivante e pieno di colorate illustrazioni, che a volte potrebbero addirittura sembrare fuori contesto ma sono perfettamente in linea con la visione scanzonata dei due autori, il libro presenta nelle pagine dispari la traduzione moderna del testo di Lucrezio, e in quelle pari i vari approfondimenti, i chiarimenti e le obiezioni di Odifreddi, che integra il tutto con una miriade di collegamenti e suggerimenti capaci di aprire un vero e proprio mondo nella mente del lettore.
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