La beffa di Buccari
- Autore: Gabriele D’Annunzio
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Mursia
- Anno di pubblicazione: 2022
“Siamo trenta di una sorte e trentuno con la morte”. Se a questi versi aggiungiamo il motto Memento audere semper (Ricordati di osare sempre) è chiara la firma di Gabriele D’Annunzio. Le citazioni del grande poeta pescarese (1863-1938) conducono a una delle imprese belliche alle quali il vate partecipò arditamente durante la Grande Guerra, in età già avanzata. Era prossimo ai 55 anni nel febbraio 1918, quando s’imbarcò ad Ancona per una temeraria incursione navale contro una base della flotta austriaca nei pressi di Fiume. Ricostruì subito epicamente l’impresa in un diario pubblicato da Treves, riproposto da poco, come un documento asettico, senza nessuna presentazione o commento, dalle edizioni milanesi Mursia: La beffa di Buccari (2022, collana Testimonianze tra cronaca e storia, 54 pagine).
A quel testo, nello stile retorico-immaginifico dell’autore, si associarono altri versi vibranti, che diventarono popolarissimi all’epoca. La Canzone del Quarnaro:
Siamo trenta su tre gusci, su tre tavole di ponte, secco fegato, cuor duro, dura fronte, mani macchine armi pronte e la morte paro a paro...
A riassumere l’impresa provvede l’Ufficio storico della Marina Militare. L’azione nella notte dell’11 febbraio 1918, nota come beffa di Buccari, fu "sterile di risultati materiali", ma ebbe "influenza morale incalcolabile". Al comando di Costanzo Ciano, parteciparono le motosiluranti MAS 96 (di Luigi Rizzo, con a bordo D’Annunzio), 95 del tenente di vascello Profeta De Santis e 94 del sottotenente di vascello Andrea Ferranini. Alle 22 del 10 febbraio, iniziarono la rischiosa navigazione in acque nemiche, tra l’isola di Cherso e la costa istriana fino alla baia di Buccari. 50 miglia tra le maglie della difesa costiera nemica, anche se l’attacco non riuscì, perché i siluri lanciati si impigliarono nelle reti metalliche a protezione dei piroscafi alla fonda. Nella rotta di ritorno, i battelli veloci italiani riuscirono a riguadagnare il largo sebbene avvistati dai posti di vedetta austriaci, che reagirono poco o per niente, non ritenendo possibile una penetrazione di unità nemiche in un’area tanto protetta e credendo quindi dovesse trattarsi di naviglio austriaco.
In una guerra in cui gli aspetti psicologici cominciavano ad assumere rilievo, l’impresa di Buccari ebbe una grande risonanza, anche per la partecipazione diretta di Gabriele D’Annunzio, che abilmente orchestrò l’esaltazione dei risvolti propagandistici.
Nella base nemica non c’erano navi da guerra o grossi mercantili e comunque non si ottenne alcun esito dal lancio contro i pur secondari bersagli navali nell’approdo militare dei sei siluri imbarcati sui tre MAS. Ma il coraggio e la perizia nautica dimostrati dagli uomini della Regia marina italiana brillarono nell’incursione, in cui i nostri non patirono alcun danno o perdita e che D’Annunzio sfruttò “mediaticamente” in modo esponenziale, in un momento difficilissimo per le sorti italiane nella guerra e per riscattare l’onore militare di un’Italia sconfortata dal disastro di Caporetto del 24 ottobre 1917.
I MAS (acronimo di motoscafo armato silurante) erano battelli di legno veloci, impiegati come mezzo d’assalto o antisommergibile, spinti da motori a benzina fino a 24 nodi, ma molto piccoli (non oltre le 30 tonnellate di dislocamento, per 16 metri di lunghezza e 2,60 di larghezza) e indubbiamente scomodi per i dieci componenti dell’equipaggio.
D’Annunzio esalta la capacità degli uomini di stiparsi (ognuno, scrive, non ha più spazio di quello che avrebbe tra le quattro assi finali), sorretti da grandi motivazioni patriottiche. “Marinai, miei compagni” chiama quei giovani che affrontano la flotta imperiale, “cautelosa” perché non impiega in mare le unità maggiori e quando tenterà di farlo, di lì a qualche mese, proprio Rizzo affonderà con il MAS 15 la corazzata Szent Istvàn, nelle acque di Premuda, il 10 giugno 1918.
Sono i marinai d’Italia che combattono “sempre e ovunque”, aggiunge e provengono da tutte le province, tutte le contrade, tutte le spiagge, “prole dei Tre Mari, una e diversa”.
Il racconto di Gabriele D’Annunzio dell’11 febbraio 2018
A mezzanotte dell’11 febbraio, navigano da quattordici ore e da cinque sono in acque strette nemiche, lontani da Ancona, a 60 miglia dalla più potente piazza marittima imperiale, a poca distanza da difese importanti e poche centinaia di metri dalle batterie di Porto Re.
Coraggiosa l’andata, non visti. Altrettanto il ritorno, dopo che le esplosioni dei siluri contro le reti di protezione della rada li hanno scoperti. Ma nemmeno le difese del pericoloso stretto di Farasina si rivelano attente. Fucilate sparse, poca convinzione: gli austriaci non credono a un’incursione nemica, li scambiano probabilmente per battelli amici. Eppure il MAS di D’Annunzio torna indietro sotto il loro naso per aiutare il 94 di Ferranini, che aveva accusato un’avaria, abilmente riparata.
Dall’acronimo MAS, D’Annunzio coniò il motto Memento audere semper e la beffa venne sancita da tre messaggi uguali, infilati in tre bottiglie di vetro spesso e lasciati nelle acque di Buccari. Assicurava di averle preparate personalmente, corredandole di un nastro tricolore ciascuna. Diffondevano uno scritto sarcastico di pugno del poeta soldato:
“In onta alla cautissima flotta austriaca, occupata a covare senza fine dentro i porti sicuri la gloriuzza di Lissa, sono venuti col ferro e col fuoco a scuotere la prudenza nel suo più comodo rifugio i marinai d’Italia, che si ridono d’ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre ad osare l’inosabile. E un buon compagno, ben noto, il nemico capitale, fra tutti i nemici il nemicissimo, quello di Pola e di Cattaro, è venuto con loro a beffarsi della taglia”.
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