Museo d’ombre
- Autore: Gesualdo Bufalino
L’opera “Museo d’ombre” (Palermo, Sellerio, 1982), dedicata da Gesualdo Bufalino al proprio padre e alla sua ombra, sviluppa gli argomenti già presenti nel volume “Comiso viva” (1978). Il filo conduttore resta il ricordo della realtà perduta e ritrovata in un ampio ventaglio di sentimenti, capaci di suscitare emozioni e consapevolezze. Significativa è l’epigrafe che riporta un pensiero di Marco Aurelio (“Ricordi”, IV, 35). Tocca poi le corde del cuore l’introduzione dall’aria proustiana dove lo scrittore afferma di sentirsi legato alla persona del suo paese situato fra i monti Iblei e il mare, luogo di intimità sentito in una complicità di sangue:
“La mia stupida Itaca da cui non sono partito”.
Cinque le ripartizioni del libro, ciascuna delle quali è preceduta da una citazione, nonché da una premessa:
- “Mestieri scomparsi”;
- Luoghi di una volta”;
- “Antiche locuzioni illustrate”;
- “Piccole stampe degli anni trenta”;
- “Visi lontani”.
Sono acquarelli che mostrano la fisionomia di un’identità collettiva ovvero il “catasto affettivo” di una comunità; sono raffinate pagine che valgono per ogni paese dell’Isola e fuori, dato che ciascuna comunità ha propri riti e costumi, propri luoghi e tipiche oralità. Valevole questo libro soprattutto per i giovani che appartengono a un’epoca distante da quella rappresentata in un tempo detto remotissimo. Il bisogno di salvaguardarla dal ritmo impietoso del tempo e della storia fa dire allo scrittore:
“Una civiltà è specialmente la ricchezza dei suoi mestieri”.
Di competenza infatti erano ricche le botteghe artigiane, centri regali di alta cultura tecnologica; scorrono così davanti agli occhi medaglioni sul lavoro del microcosmo socio-economico e valoriale unitamente a figure e voci che offrono l’immagine della Sicilia laboriosa e fortemente produttiva nel contesto d’una forte alleanza tra città e campagna. Si susseguono, poi, i luoghi d’una volta, quelli “che cambiano più presto d’un cuore umano”. In proposito, il citato Dickens ne “La bottega dell’antiquario” aveva scritto:
“Sono tanti i mutamenti che avvengono in pochi anni, e così svaniscono le cose, come un racconto ormai raccontato”.
Bufalino, ripensando all’Itaca da cui non è mai partito, si rattrista quando sperimenta il sentimento della perdita di luoghi e di affetti. Sicché, la malinconia lo induce anche a ripescare locuzioni adottate nel linguaggio scurrile e cameratesco, aneddoti, profili umani e abitudini. A restituire loro la vita è il potere taumaturgico della scrittura, sebbene il nostro scrittore nutra perplessità sull’utilità del ricordare:
“Insomma non converrebbe più a tutti l’assenza che la presenza, l’amnesia più cieca che la memoria più astuta? Da un così futile dubbio io non so spremere risposte, ma miele e strazio insieme”.
Nella sezione “Facce lontane” il lettore incontra la breve biografia di Biagio: personaggio che senza alcuna dimestichezza con la letteratura scrive per il figlio parole struggenti in versi:
”Giovinezza per legge di natura / passa veloce e poco dura” (…) / In vita mia ho riso e ho pianto, / non ho rimorso, non ho rimpianto. // Figlio caro, seguo la sorte, / e aspetto con fiducia la mia morte”.
Siamo entro l’accettazione affettuosa d’una specie di ananke che si snoda dall’incanto al disincanto fino all’estinzione dell’individuo. Sa di nostalgia il congedo di Bufalino: “Non si finirebbe mai …”. Inesauribile il museo d’ombre che, nelle profondità dell’animo, ha a che fare con l’occhio e con il cuore dell’uomo.
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