Diceria dell’untore
- Autore: Gesualdo Bufalino
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Sellerio
“Diceria dell’untore” (Sellerio, Palermo, 1981) è un romanzo autodiegetico, in cui Gesualdo Bufalino si fa protagonista d’una storia intima affidata alla memoria e resa efficace da una scrittura ricca di virtuosismi stilistici. A seguito dell’epigrafe, che riporta alcune definizioni sui due termini che intitolano il libro, il lettore entra nella narrazione attraverso una strategia onirica dalle tonalità “noir”; segue poi l’evolversi dei fatti.
Nel maggio del 1946 l’io narrante giunge al sanatorio “La Rocca”, presso Palermo”, con la sua povera cassetta d’ordinanza da ufficiale, per curarsi di tisi: infezione che mieteva vittime dai “poveracci” ai “signorini”. I tisici sono degli untori, perché contagiano chi li avvicina. Li allea il patto di non sopravvivenza per cui nessuno perdonerebbe la guarigione dell’altro. Vivono per la morte ed essa è sicuramente l’asse nevralgico dell’intera vicenda attorno a cui gravitano diversi personaggi con i quali il protagonista condivide la malattia, trascorrendo giornate d’afflizione:
- il medico della casa di cura, Grifeo detto il Gran Magro, perfido e sadico mistificatore;
- il cappellano militare padre Vittorio che, già in crisi, si fa inquinare le credenze religiose fino ad affermare di essere un prete per finta;
- il giovane Sebastiano che manifesta il desiderio d’avere un figlio perché possa in lui prolungare la vita e che pone termine ad essa con il suicidio;
- il bambino Adelmo che, ignaro della sua condizione, chiede il racconto di storie.
Struggenti le pagine che descrivono il breve ritorno al paese natio, Comiso, con cui il giovane ufficiale vive in modo assoluto un rapporto di estraneità. Anche il padre non comprende la diversità d’animo del figlio: quella dello sconfitto e dell’escluso, dovuta alle regole dure dell’esistenza. La sua è una non-vita che gli fa dire:
“come è difficile stare morto fra i vivi”.
Da qui la scelta di ritornare nel sanatorio dove vive una passione irresistibile. E’ Marta, figura misteriosa che dimora nel reparto femminile, la donna di cui egli si innamora mentre assiste ad uno dei soliti spettacoli teatrali tenuti alla “Rocca”: la più “fradicia”, la più ammalata terminale che gli fa vivere indimenticabili momenti durante la fuga di alcuni giorni dall’istituto di cura. Evasione questa dalla malattia e dalla morte? I due fanno all’amore senza alcun timore del contagio; entrambi si raccontano e vivono giorni esaltanti che inducono il giovane a favoleggiare un possibile futuro con la compagna. La morte però non lascia scampo né a lei né agli altri pazienti. Marta, di cui si scopre l’effettiva identità, muore fra le sue braccia nella stanza dell’alberghetto presa in affitto. L’unico a guarire è lui. Assillato dal rimorso d’aver tradito “il silenzioso patto”, cerca una giustificazione alla sopravvivenza:
“Per questo forse m’era stato concesso l’esonero; per questo io solo m’ero salvato, e nessun altro, dalla falcidia: per rendere testimonianza, se non delazione di una retorica e d’una pietà”.
La seconda data dei fatti narrati è il 1971: venticinquesimo anniversario della dimissione alla Rocca, descritta fra delusione, dubbi e speranza. Ora l’io narrante porta con sé, nascosta sotto la lingua, la sua diceria, avvertita “come un obolo di riserva”. Gli servirà come lasciapassare:
“pagare il barcaiolo il giorno in cui mi fossi sentito, in séguito ad altra e meno remissibile scelta o chiamata, sulle soglie della notte”.
Lo stigma della sofferenza si fa viatico d’una speranza insperabile, d’una sorte scritta per essere recitata.
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