Come non educare i figli. Lettere sulla famiglia e altre mostruosità
- Autore: Franz Kafka
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: L’orma editore
- Anno di pubblicazione: 2018
La busta è di un cartoncino color verde militare, pronta per essere spedita. Sul retro in alto a destra in un rettangolo è scritto “affrancare qui”; a sinistra è posta la dicitura “piego di libri”; in mezzo in verticale “libro spedibile”.
In basso a destra sono stampate quattro righe per l’indirizzo del destinatario. Sull’altro verso del piccolo e originale pacchetto campeggia la fotografia dell’autore, con il titolo del libro tascabile, inserito all’interno, formato lettera 12 per 17 cm.
Si tratta di una bellissima idea dell’Orma editore, che pubblica una collana di epistole di scrittori, cogliendone gli aspetti privati, la personalità, la psicologia. Libri, volendo, pronti da spedire.
La voglia di leggere si accresce. Il mini-libro in questione è dedicato a Franz Kafka, intitolato Come non educare i figli. Lettere sulla famiglia e altre mostruosità (L’orma editore, pp. 61, 2018); prefazione, traduzione e commento critico di Marco Federici Solari.
È noto il conflitto insanabile tra lo scrittore praghese e il padre, documentato nella Lettera al padre di un centinaio di pagine, pubblicata postuma a cura dell’amico Max Brod nel 1956. Kafka aveva affidato il testo a sua madre, che avrebbe dovuto fare da intermediaria e consegnarlo al marito.
La cosa non avvenne mai, la madre non volle dare un dispiacere al consorte. Quest’ultimo era un uomo di grande corporatura, energico, autoritario e molto irascibile. Senza dubbio creativo, aveva iniziato a lavorare fin da bambino, a 7 anni, in condizioni di grande disagio. Arricchitosi, dedicava tutto il suo tempo al lavoro, un commercio redditizio.
Vedeva i figli soltanto all’ora di pranzo, dove esercitava il ruolo di padre padrone, con sgridate continue e minacce, umiliazioni per ogni minima infrazione al galateo del primogenito Franz, (due fratellini nati in precedenza erano già morti), mentre lui si permetteva ogni genere di cafonate, dal tagliarsi le unghie a tavola alla pulizia delle orecchie con uno stuzzicadenti.
Kafka non superò mai il trauma procuratogli dal padre orco, complesso di inferiorità divenuto disadattamento, misantropia e terrore verso il matrimonio. In tale situazione il suo sguardo diventa critico, lucido e tagliente come un coltello verso la società borghese, anche quella ebraica in cui era immerso.
L’ultima parte del libro è dedicata a stralci di questa lettera drammatica, nella quale però non esiste un sentimento di disprezzo. Anzi in più punti si percepisce una inconfessabile e quasi gradita sudditanza, una segreta ammirazione mista al rifiuto cosciente del genitore, come in questo passo:
Talvolta mi immagino la cartina del mondo con te sdraiato sopra. E mi sembra allora di poter scegliere per la mia vita solo le regioni che tu non copri o che sono fuori dalla tua portata. E il mio concetto della tua grandezza è tale che i luoghi che restano sono pochi e spesso inospitali, e il matrimonio non ne fa parte.
La prima sezione dell’epistolario comprende alcune lettere inviate alla sorella Elli riguardo alla scelta della scuola del nipote Felix, di dieci anni.
Lo scrittore esprime giudizi durissimi verso la famiglia, definita "animale famiglia", dati i legami istintivi brutali di sangue, nei quali i genitori sono famelici mangiatori d’anime (il riferimento mitico è Crono che divora i suoi figli); non solo: nel tentativo di plagio genitoriale, che secondo il Nostro è sempre in atto, padre e madre attuano un vero e proprio incesto psichico.
Il riferimento a Swift (ai lillipuziani de I viaggi di Gulliver, i quali non educano direttamente la prole) serve a Kafka per ipotizzare il distacco dei bambini dai genitori, affinché possano avere pedagoghi imparziali. Ma se fosse stato lui stesso strappato alla famiglia, come capita all’infanzia relegata negli orfanotrofi, non credo che tale situazione sarebbe stata indolore…
Nella parte centrale troviamo alcune lettere del monumentale carteggio (oltre 500 missive, ma non sono conservate quelle di lei) dedicato alla fidanzata berlinese Felice Bauer. Felice era una ragazza venticinquenne, impiegata, indipendente economicamente; sopportò con pazienza certosina per ben cinque anni, dal 1912, la nevrosi (o temperamento schizoide come affermano certi psichiatri?) di Kafka.
L’uomo non possedeva la forza morale di sposarla, assumere il ruolo di marito responsabile, pur dichiarando di amarla sopra ogni cosa. Le aveva fatto una strana richiesta di matrimonio, elencando tutti i motivi per cui Felice avrebbe dovuto rifiutarlo, ma invano, la ragazza voleva assumersi il ruolo di crocerossina e Franz ebbe il consenso al matrimonio dal padre di lei. Contrapponeva irrimediabilmente la donna al suo lavoro di scrittore, con il quale era davvero sposato. Nelle lettere la dicotomia tra pensiero e vita emerge in modo ossessivo. Alla fine il fidanzamento si ruppe.
Kafka, contorto fino all’inverosimile, aveva paura del corpo, anche del suo e lo disprezzava, ma nel contempo, testimoniano gli amici, era un assiduo frequentatore di bordelli.
Genio e follia. Una follia controllata e sublimata nel realismo magico, nelle tragiche allegorie dei suoi racconti e romanzi.
Il significato psicologico della tubercolosi da cui era afflitto, di cui infine morì, sta nell’impossibilità di comunicare con il mondo, nel non poter accettare l’aria che si respira, “l’aria che tira”, i valori o disvalori correnti, con un sentimento di esclusione e dolorosa impotenza. La lotta non è contemplata e neppure possibile.
Come non educare i figli. Lettere sulla famiglia e altre mostruosità
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