Dialoghi con Leucò
- Autore: Cesare Pavese
- Categoria: Narrativa Italiana
“[…]Pavese si è ricordato di quand’era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge. Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po’ straccamente e ci sbadigliano un sorriso.”
Così Cesare Pavese presenta i suoi Dialoghi con Leucò, scritti tra il ’45 e il ’47: sono ventisei brevi dialoghi che coinvolgono personaggi del mito greco, dei ed eroi, potenze cosmiche, poeti. Si tratta di riflessioni sul destino, sulla vita e la morte: parole calibrate con grande attenzione, dense di ricordo e di sentimento, divenute crogiolo di contrastanti emozioni. L’immortalità divina non è sinonimo di felicità: uomini e dei si trovano su piani diversi ad affrontare le difficoltà che il destino pone sulla loro strada; non si tratta di stabilire chi stia meglio, si tratta di riuscire ad abbracciare un fato invisibile ed ignoto. Ciò che accomuna ciascun personaggio è il sangue:
“Dai tempi del caos non si è visto che sangue. Sangue d’uomini, di mostri e di dei. Si comincia e si muore nel sangue.”
Queste le parole di Eros, in uno dei dialoghi: vengono affrontate questioni esistenziali sempre attuali, che vanno lette a poco a poco, centellinate e decantate nel nostro animo, affinché penetrino come un balsamo in noi e ci permettano di far parte di quel mondo apparentemente distante del mito greco e delle leggende. In fondo la ricerca della propria identità, della libertà e della coscienza non smette mai di rinnovarsi e di infondere coraggio; siamo come Edipo che, riflettendo sulla sorte toccatagli, asserisce:
“Non saprai mai se ciò che hai fatto l’hai voluto...ma certo la libera strada ha qualcosa di umano, di unicamente umano. Nella sua solitudine tortuosa è come l’immagine di quel dolore che ci scava. Un dolore che è come un sollievo, come una pioggia dopo l’afa – silenzioso e tranquillo, pare che sgorghi dalle cose, dal fondo del cuore. Questa stanchezza e questa pace, dopo i clamori del destino, son forse l’unica cosa che è nostra davvero.”
Pavese sembra ricordare l’insegnamento di Eschilo, “πάθει μάθος”, poiché proprio attraverso il dolore si può giungere alla conoscenza, alla consapevolezza di sé: ciò che ci accade diviene parte di noi ed è un monito, un silenzioso santuario di verità.
Così, nel vento del silenzio, udiremo Circe bisbigliare al nostro orecchio:
“L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Nomi e parole sono questo.”
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