Le parità e le storie morali dei nostri villani
- Autore: Serafino Amabile Guastella
- Genere: Classici
- Categoria: Narrativa Italiana
Le parità e le storie morali dei nostri villani è un’opera tanto sorprendente da meritare un’attenzione continua. Innanzitutto va detto che realizza un armonico equilibrio tra asciuttezza stilistica e connotazione socio-antropologica.
La prefazione dell’autore ne illustra così gli scopi:
Ho tentato di desumere gli affetti, le credenze, il senso morale dei villani nostri dai loro apologhi, che intitolano “parità”, e dalle loro leggende morali, alle quali dànno il nome di “storie”, lavoro arduo per molte ragioni e principalmente per la ritrosia dei villani a narrarle: sicché bisogna coglierle a volo, quando, a documento di qualche azione di morale un po’ dubbia, si servono di esse, come gli avvocati si servono dei cavilli.
Trattandosi di una cultura affidata all’oralità, il Guastella non poteva trascrivere sotto dettatura, ma ascoltava dalla bocca dei popolani con orecchio delicato e attento. Dopo stendeva sulla carta ciò che a lui era stato narrato. L’antropologo e scrittore chiaramontano puntualizza:
Il villano non ama i lunghi i ragionamenti, ma concentra tutta quanta la sua dottrina in un proverbio, o in un apologo, ch’egli intitola parità, o in qualche bizzarra leggenda, da lui chiamata storia, tanto più creduta quanto più inverosimile. Ed anzi nei casi dubbi è la storia quella che preferisce, perché la tiene in conto di verità a ventiquattro carati, laddove alla parità, considerata come fatto realmente accaduto, non ci crede per nulla, ma crede alla moralità che racchiude, e la stima lo stillato dell’antica sapienza. Da quali fonti il popolo abbia tratte questa parità e quelle storie sarebbe difficile investigare; ma sembra che talune di esse derivino dal mondo orientale, come lo dimostrano certi speciali caratteri, e certi non accidentali confronti; e che altre abbiano un’origine relativamente moderna; ma sì le prime che le seconde a poco a poco sono state ritagliate o accresciute per successive evoluzioni confrontandosi all’indole, agli affetti e alle nuove credenze del popolo.
“Parità”, dunque, equivale a parabola. Il villano crede nell’insegnamento che essa dà, e non nel fatto. Anche la “storia” esprime un ammaestramento, ma, a differenza della “parità”, è considerata realmente accaduta. Con una tecnica d’ascolto immediato prendevano così corpo le “parità” e le “storie” (ventisei in tutto indicate progressivamente con le lettere dell’alfabeto): trascritte nella seconda parte del libro in dialetto come gli furono raccontate e rielaborate in lingua nella prima parte, sono un documento d’indagine comportamentale sul contadino siciliano dell’Ottocento. Il libro, orchestrato in una pluralità a più voci, è quindi articolato nei momenti interdipendenti della ricerca etnografica e di un particolare procedimento inventivo in cui coesistono due caratteri: il racconto-apologo dei popolani; il racconto meno impuro e più letterario che coglie personaggi e fatti all’interno di una precisa condizione umana. Evidente l’intervento omodiegetico. Guastella che non si limita ad esporre i dati: li interpreta, li spiega e li rappresenta a volte con ironia, altre volte con iperrealismo e spesso con una sorta di meditata pietà. Talora è il commento alla parabola dei villani (così chiamati i contadini senza tono dispregiativo e senza che i villani siano da loro distinti) che dà luogo al narrato, altre volte è la narrazione a preparare la presentazione delle leggende morali: nella fusione di dati folclorici, ideologici e narrativi condotta sul comune denominatore della conoscenza della realtà, gli esiti sono pregevoli per la qualità della scrittura, asciutta e cruda. Ci si trova dinanzi a figure collocate in una realtà quasi immodificabile, dove il comportamento collettivo è regolato dalle azioni di Dio e dei Santi. Guastella, muovendosi entro uno spazio ideologico immerge il lettore in squarci rappresentativi che si direbbero eseguiti da un raffinato pittore. E’ lui che con fare demiurgico sostiene la sua opera e con lui vediamo e viviamo situazioni attorno a temi quali l’egoismo, il furto e l’astuzia, il rapporto uomo-donna, le malattie, tra cui la malaria, le superstizioni in fatto di medicina popolare, il lavoro minorile, nonché la vecchiaia. A fondamento dell’edificio sociale sta la parità in cui viene sancita la distribuzione dei beni e dei mali, delle ricchezze e della povertà:
Un giorno il Signore Dio benedetto, infastidito dai tanti lamenti degli uomini, volle fare la distribuzione dei beni e dei mali, in modo che a ciascun ceto toccasser degli uni e degli altri. I primi ad accorrere furono i cavalieri, i quali, non trovando lotta od ostacolo, si acciuffarono le ricchezze, le terre, le onorificenze e tutti i divertimenti di questo mondo; ma non poterono acciuffar la salute, che fuggì via spaventata. In secondo luogo vennero i preti ed i monaci, i quali dissero al Signore: O Signore, noi ci contentiamo dei soli beni del paradiso; ma poi, pensandoci meglio, si accorsero che coi beni del paradiso non bollisce la pentola; sicché spazzaron via quel tanto, che fu dimenticato dai cavalieri. E anch’essi ebbero la quota dei mali, e fu il rinunziare alla donna. I monaci e i preti a dir vero, non restarono rassegnati a quella privazione; e dissero e fecero e tempestarono, ma Domineddio fu ostinato; e volle anzi che portassero la gonnella, per significare che le donne dovessero riguardarle come sorelle, non come mariti od amanti. Ultimi e senza fretta giunsero finalmente i villani, i quali trovarono il campo delle distribuzioni nudo come un ginocchio, all’infuori del ciuco che pascolava lì presso (...). E il nostro male, o Signore? - I vostri mali son molti, ma il principale è lo sbirro.
Valori e comportamenti si delineano a partire dalla posizione centrale occupata dall’asino negli affetti contadineschi fino alla subordinazione totale della donna:
Dissi che il villano non ha passioni, o le ha di breve durata: e dissi male, perché ha un odio profondo pel birro, e un vivo e costante affetto per l’asino. Posto al bivio di scegliere fra la morte della moglie o del ciuco, non starebbe in forse un momento. Un’altra donna è presto trovata, ed egli avrà il beneficio di un’altra dote, e della carne fresca, come cinicamente si esprime; ma, invece, a comprare un altr’asino s’impantanerebbe nei debiti, e a trarsene fuori ci vorrebbe l’aiuto di Dio.
Il legame con l’asino è sì prioritario rispetto ad altri affetti in quanto la bestia è il principale strumento di lavoro, ma anch’esso resta subordinato all’utile che se ne può trarre o alla funzione che il puledro può assolvere. Il villano perciò è sempre pronto a cambiarlo quando ha la necessità di averne uno più giovane o più robusto. Parlando dell’ideale estetico del contadino, Guastella sottolinea che i villani, ponendolo in relazione alle fatiche quotidiane, percepiscono la bellezza della donna “nell’adipe, nelle schiene robuste, nelle tinte calde, e anzi tutto in quei seni voluminosi, che sembrano scoppiare sotto il busto, e prender di assalto le ascelle”. Quelle che preferiscono sono le donne denominate in dialetto sciacquate: “parola intraducibile, atta a significare la ricca procacità delle curve, la rigogliosa salute e la nettezza della persona. All’opposto le gracili, le delicate, le bionde, quelle che nel suo gergo denomina pale di baccalà, quando anche fossero belle come Madonnine del Cinquecento, oh quelle lì son merce da cavalieri, né gli riscaldano il sangue”. La spiegazione è pur sempre riconducibile alla ferrea lotta per la sopravvivenza:
“Ché diavolo dovrebbe farsene di quelle pupattole, che gli si rompono fra le mani? Pel villano la moglie all’occorrenza dovrà far le veci dell’asino; dovrà portar sulle spalle il sacco del grano, e le fascine di legna”.
Nell’opera non mancano informazioni dettagliate sulla condizione minorile dell’Ottocento: già a quattro anni i bambini vanno in campagna col padre, gli custodiscono la roba, menano l’asino all’abbeveratoio e cercano d’ingegnarsi alla meglio per cibarsi di frutti e di erbe. Il bimbo dovrà crescere con la convinzione che per cavarsela ha bisogno di essere accompagnato da due “fate”: la piaggeria e la furberia.
Le punizioni corporali sono l’unico sistema educativo in vigore nella famiglia, secondo il proverbio per cui “l’albero può raddrizzarsi quando è giovane”. In caso contrario, spiega il villano, si verifica quanto accade nella leggenda di San Cristoforo, dove si narra che costui, accontentato da piccolo in ogni capriccio, da ragazzo uccide il padre per non averlo raddrizzato a tempo debito. L’assenza di tutela delle classi subalterne è confermata dalla parità sulla “Giustizia”. Il compito che le aveva assegnato Domineddio era stato quello di operare per la pace e per la concordia. Perciò, essa ascoltava tutti con imparzialità: i ricchi con l’orecchio destro, quello dell’intelletto, e i poveri con il sinistro, quello del cuore. A seguito dell’intervento dei diavoli, gli Scribi e i Farisei riuscirono a conficcarle un chiodo nell’orecchio sinistro. Sicché, “La povera giustizia, senza colpa sua, divenne sorda di quell’orecchio, e da quel momento in poi non potendo ascoltare le ragioni dei berretti, la dà sempre vinta ai cappelli”. Da qui la convinzione che ogni legge è fatta a danno del povero e a vantaggio del ricco. Le sentenze di classe non mancano: “La forca è fatta pel povero”, “Pel povero non c’è giustizia”, “Pel povero non c’è compassione”. Per il villano il re è come la pulce: entra dove gli piace e succhia quel che gli piace. Dinanzi all’assoluta prevaricazione dello Stato che si serve degli sbirri per soddisfare la sua ingordigia, resta l’astuzia che si manifesta nel furto e nell’inganno a danno dei padroni per riequilibrare i rapporti socio-economici danneggiati. I detti attestano la liceità del furto nei riguardi dello Stato (“La roba del Re è roba del pubblico”; “Chi ruba al re non ruba a nessuno”) e la leggenda del vecchio staffiere, nel confermare il furto a svantaggio dei ricchi, esclude che esso possa essere esercitato a danno degli indigenti. Se il contrabbandiere è la provvidenza del povero, il re ne è il persecutore. Il contadino non è quindi un ingenuo e non appare del tutto rassegnato alla povertà. Anzi, il decreto divino asseconda le modalità della trasgressione.
In tutte le “parità” e le “storie” è evidente il trasferimento a Dio dei bisogni perché possano essere accolti e soddisfatti anche nella maniera più difforme ai valori religiosi. Il rovesciamento dell’etica cristiana, voluto dal Signore e dai santi che dettano comportamenti contrari alla norma sia religiosa che sociale, conferma sì una visione della vita dissacrante, ma funzionale alla sopravvivenza. La religiosità appare così rassicurante in quanto le Parità svelano un’agiografia non staccata dalla condizione degli oppressi. Da questa prospettiva, esse testimoniano strategie di difesa per mitigare la desolazione di un’intera esistenza. Decisamente Guastella assume atteggiamenti di assoluta comprensione nei confronti della donna, vista come la vittima sacrificale della famiglia. L’osservatore muta di voce e di intonazione e fa avvertire tutto il senso della durezza quotidiana:
Eppure è una crudele ingiustizia lo svillaneggiare in tal modo la donna del contadino.
È lei la vera martire della famiglia; è lei che va al mulino col sacco su le spalle; è lei che porta l’acqua dalla fontana con la brocca sul capo; è lei, che in su la notte, munita di un lanternino, va a lavare i poveri cenci: e vi si reca di notte, perché le lavandaie di mestiere, durante il giorno, non le cederebbero il posto; è lei che dall’alba a sera tarda, o inferma, o incinta, o affamata, si sciupa gli occhi a rattoppare gli stracci, che le si sfilacciano tra le mani; a riammagliare le calze sparse di buchi; a rassettare i bambini; a mangiarsi il cervello per trovar modo di comprare il sapone per la mutanda del marito, o di rifornire con una nuova la pentola che non trattiene un gocciol di acqua, o di racconciare la vecchia cassa rosicchiata dai sorci, giacché è lei che deve pensare a tutto, dall’acqua al sale, come dice ella stessa.
Anche se può sembrare eccessivamente sentimentale, il racconto della giovane contadina Grazia (presentato come fatto realmente accaduto nel 1882) riflette un atteggiamento profondamente umano. Vediamone le tappe salienti.
La donna sa di essere tisica e va incontro alla morte con rassegnazione. Spinta dalle vicine, si reca dal medico e ritorna con la conferma di quanto era a conoscenza. Il marito, dopo avere appreso della malattia, reagisce mostrando l’abituale egoismo e cinismo: non può comperarle nemmeno il cibo di cui ha bisogno dal momento che il giorno prima aveva acquistato il basto nuovo per l’asino.
La contadina, prima di morire, oltre ad accettare l’uso per il quale è il marito a proporle la scelta di chi dovrà sostituirla nel ruolo di madre e di moglie, con un singolare rito dà luogo ad un giuramento che i villani – commenta Guastella – non rompono impunemente. Alla fine del libro, dopo un richiamo alle “sentenze” del Leopardi sulla vecchiaia, incontriamo lo zio Clemente. Quanta inesorabile discesa lungo l’accidentato cammino della vita! Dapprima era stato un carrettiere spavaldo, dopo agricoltore per necessità e infine, da vecchio, s’era ridotto a mendicante per non essere di peso alla figlia che l’aveva accolto in casa dopo che la nuora l’aveva rifiutato. Fino a quando lo zio Clemente riesce a raggranellare qualche soldo, i familiari gli si buttano addosso per sottrargli il guadagno giornaliero.
Non potendo più chiedere l’elemosina perché ormai ammalato, essi cominciano a trattarlo in pessimo modo. Alla fine, la figlia lo manda in ospedale, nonostante l’opposizione angosciata di lui. A questo punto si inserisce la spiegazione dello scrittore per far comprendere il motivo del rifiuto del ricovero.
Lo zio Clemente, prima del ricovero ospedaliero, si era recato dal prete per chiedergli con i pochi soldi a lui rimasti il suono delle campane per l’agonia. Ma le campane non suonarono e la bara non fu nemmeno accompagnata sino al camposanto. In maniera spietata, dimenticato da tutti anche da morto, il becchino, dopo averlo frugato, esclama:
”Maledetti taccagni! l’han mandato via come Giobbe. Non c’è da spigolare un centesimo. E lo butta con istizza entro una delle fosse pei poveri”.
Con acutezza critica Italo Calvino ha osservato:
La sua morte spaventosa e quel funerale in cui i becchini della Confraternita frugano il cadavere nella vana speranza di cavarne qualche soldo, e poi si giocano a briscola sulla bara i soldi della paga per il trasporto, dànno al libro una clausola che è nel gusto del bianco e nero romantico: sono gli eroi vittorughiani che abbiamo imparato a seguire in simili abissi di sfortuna, sia pur magari per poi vederli risalire. I villani di Guastella invece non risalgono mai; non un raggio di speranza illumina il quadro; se ci fu mai scrittore cui non si può imputare la minima mistificazione consolatoria, quello è lui.
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