La strega di Shirley Jackson

In tre dei quattro racconti che formano la smilza antologia La strega di Shirley Jackson recentemente pubblicata da Adelphi (traduzione di Silvia Pareschi) i protagonisti sono bambini o adolescenti.
Nel primo, un bambino di quattro anni che viaggia con la madre su un treno, e al quale una fervida immaginazione infantile fa vedere streghe ovunque, incontra un adulto che col sorriso sulle labbra inventa storie così atroci da spingere la madre del bambino a intervenire. In un altro racconto, un uomo che ha preso una sbornia ascolta nella cucina della casa di cui è ospite le visioni catastrofiche di una diciassettenne.
Nella terza storia, un bambino racconta ogni giorno ai genitori le malefatte compiute a scuola da un coetaneo incredibilmente aggressivo, la cui identità sarà illuminata nel finale.
Nell’ultimo racconto, infine, una donna che si reca a New York dal medico per liberarsi di un dente molesto, incontra un personaggio singolare che la segue e pronuncia strane frasi poetiche che alla fine si riveleranno promesse di una realtà, o di qualcosa che somiglia alla realtà, ma rasenta la follia.

Shirley Jackson è una scrittrice inclassificabile. Cala le situazioni narrate nella realtà di ogni giorno, ma sfugge ai limiti rigorosi del realismo; né si può parlare di “narrativa del terrore” perché non usa gli ingredienti tipici di questo genere letterario.
È piuttosto una scrittrice dell’inquietudine, capace di portare in poche pagine il lettore verso confini misteriosi o disturbanti, dove le identità si fanno incerte (esemplare in questo senso la sequenza in cui la protagonista dell’ultimo racconto si guarda allo specchio in una toilette) e dove la normalità quotidiana si incrina sotto l’effetto di enigmatiche schegge deformanti.