La verità del giudice meschino
- Autore: Mimmo Gangemi
- Genere: Gialli, Noir, Thriller
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Garzanti
- Anno di pubblicazione: 2015
"Ogni giorno in Calabria è quello buono per scannare o essere scannati"
Quasi viene di fare il tifo per l’Ombra, assassino di ’ndranghetisti, giustiziere che ammazza dei poco di buono con metodi che più feroci non si potrebbe. È sempre molto bravo Mimmo Gangemi a dominare trame e personaggi dei suoi gialli alla ’nduia, polizieschi made in Calabria. “La verità del giudice meschino”, edito ad aprile da Garzanti (200 pagine, 16,90 euro), segue i due titoli precedenti (“Il giudice meschino” 2009 e “Il patto del giudice”, Garzanti 2013) delle inchieste di Alberto Lenzi, magistrato della Procura di Reggio Calabria, trasferito dalle pagine al piccolo schermo da Luca Zingaretti, nella miniserie su Raiuno.
Capelli mossi e lunghi, con un accenno di grigio sulle tempie, il dott. Lenzi cartaceo (quello televisivo è calvo) ne ha fatti di passi avanti da quando era un Pm ozioso e svogliato, all’inizio del trittico. Ritrovate le motivazioni dopo l’omicidio di un amico, ha cambiato passo, guidato da un istinto che non sbaglia. Certo, resta stronzo e tignoso per i colleghi ed è sempre un soggetto difficile per le sue donne.
Dopo due anni di matrimonio con Marta, ora è sulle tracce di Laura, avvocatessa che deve alla bella presenza più che alle qualità professionali qualche successo in udienza. Per essere bona è bona e pure arrapante, pensa Alberto, ma con lei non c’è verso di arrivare al dunque. Quand’anche, dopo un appuntamento, si sale in casa, solo abbracci, sospiri, qualche maneggiamento ardito, poi si raffredda, tira giù la saracinesca e congela gli ardori, mandandolo sconsolatamente in bianco.
Purtroppo ha lasciato andare anche Marina (che in tv è la statuaria Luisa Ranieri), maresciallo dei Carabinieri e tuttora partner nel lavoro in Procura. Già compagna di letto, d’appartamento e di cuore, è vicina da un anno a un magistrato civile, un tipo minuto, voce sottile, per niente sportivo.
Al momento, per Alberto si è scatenata un’elettricità naturale con Sara, nuora di un boss. Quattro torridi incontri tra loro, ma la liaison, che credeva ignota a tutti, gli costa un pestaggio di avvertimento, in una terra schiava ancora dei pregiudizi d’onore, anche se lei è vedova e libera. Infatti, era la moglie della prima vittima del romanzo, Carlo Morello, figlio del temibile don Rocco. È ritrovato impacchettato a testa in giù, come un capocollo, in un buco naturale. Più che altro, fatto ritrovare, con messaggi anonimi insistenti, diretti a Lenzi, corredati perfino da un’immagine aerofotogrammetrica del luogo dove i piedi sporgono dalla terra battuta. È stato percosso, legato, seviziato e fatto soffocare nel fango.
Le indagini non ricavano gran che. La pista di una probabile scappatella femminina è infruttuosa. Si dovrebbe escludere anche una guerra di mala, perchè non c’è morto di ritorno. O meglio, sì, fuori regione, ucciso più o meno allo stesso modo: un nemico dei Morello. Certo che in Calabria ogni giorno può essere quello buono per scannare o per essere scannati.
Viene anonimamente segnalato un altro cadavere in zona. Crocefisso al contrario e sgozzato, il sangue raccolto in un catino, come un sanguinaccio. La vittima era un ispettore di polizia, sospettato di collusione con le ’ndrine. Giornali e televisioni scatenano la solita cagnara e i talk show fanno anche di peggio. Il procuratore capo pretende risultati. Insomma, colpevoli, quali che siano. Buone indicazioni sono offerte ad Alberto da don Mico Rota. Malato quasi terminale, il vecchio mammasantisissima filosofo è agli arresti domiciliari, ma non porta rancore al magistrato che a suo tempo lo ha beccato. Tra loro c’è un singolare, antico rispetto.
Ogni particolare degli omicidi, legato alla macellazione dei maiali, ha un significato. Per don Mico è ben chiaro a cosa portino quei massacri efferati, tanto diversi dalle ammazzatine di malavita. Qualcuno, dice, ha capito bene che sarà il prossimo della lista. Il killer se lo tiene per ultimo, per logorarlo con la paura. Occhio per occhio ai danni di chi ha commesso una colpa gravissima, che la giustizia degli uomini non punirebbe con la severità che merita. A suo dire, il giustiziere non andrebbe perseguito: se la prende solo con chi lo ha sfregiato con un atto terribile e ha continuato a campare, fottendosene di aver inflitto un dolore ingiusto. È più di una vendetta, è una forma di giustizia. Il vecchio padrino è convinto che anche Alberto Lenzi sia d’accordo. Come tutti.
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