Macbeth
- Autore: William Shakespeare
- Genere: Classici
- Categoria: Narrativa Straniera
Il nobile Macbeth uccide il suo Re per prenderne il posto. Quel Re che è come un padre per lui e lo ama senza ombra di sospetto, che poco prima gli aveva annunciato, con tenerezza:
Io ho cominciato a piantarti e mi darò da fare per riempirti di fronde
Per il saggio Duncan la vita umana è una pianta da coltivare con ogni cura e precauzione. “Io ho cominciato a piantarti”. È appena un inizio, una promessa di fioritura. Eppure falciando quella del Re, Macbeth sradica anche il germoglio della propria vita, con tutte le sue promesse. Da quel momento la sua anima inaridisce come una pianta senza nutrimento, fino a ridursi a fossile dell’ambizione immoderata, tanto conclusa in sé da escludere l’umanità.
Così Macbeth si caccia in una trappola di chiaroveggenza da cui non potrà né vorrà più uscire.
Riletto nella versione aggiornata di Paolo Bertinetti (Einaudi, 2016) , il “Macbeth” shakespeariano rivela tutta la sua forza contraddittoria, la scissura ormai compiuta tra ragione umana e Natura. L’ambizione del nobile scozzese spinta fino al delitto e alla discesa nell’abiezione morale, si inscrive infatti in un paesaggio livido che fa pensare alla propagazione di un morbo. Spesso rileggendo questi versi mi è venuto di associare l’atmosfera del dramma al disfarsi dei corpi durante la peste ateniese descritta da Tucidide e ripresa da Lucrezio nel De rerum natura. La stessa aria di corruzione che intacca le fondamenta di una civiltà, la stessa progressione di una malattia che attecchisce nella mente e nella carne, rese molli dalla superstizione. La ragione umana, slegandosi da tutto ciò che è sacro, non può che prefabbricarsi una dimensione altra dell’esistenza, che ne cristallizza le azioni e i pensieri alienandoli dalla comunione con l’ordine eterno e mutevole del cosmo, impedendo alla coscienza di situarsi nella Realtà, di comprendere ancora il linguaggio e i segni della Natura.
Questa degradazione della Religio a superstizione (manifesta nel linguaggio del protagonista, nei suoi monologhi, nei suoi pensieri ad alta voce che recingono lo spazio autoreferenziale di una dissociazione in atto dalla Realtà circostante) induce Macbeth a fraintendere gli oracoli delle streghe e, attraverso la proiezione idolatrica dei propri impulsi sregolati, alla guerra con il mondo, alla fuoriuscita da sé e dalla Natura, verso l’abisso e il vuoto che si è scavato.
La fiaccola con cui la sua consorte e complice, Lady Macbeth, tenta di illuminare l’oscurità che li avvince è l’emblema allucinatorio di un mondo effimero, ridotto a impura rifrazione della mente e dei suoi infiniti spettri. Siamo agli inizi del ‘600 e l’età moderna si preannuncia nella sua essenza disgregatrice, sventolando i vessilli della violenza e dell’individualismo con un incedere progressivo nei domini della follia e della paura.
In tal senso, “Macbeth” è la tragedia dell’Assoluto, del volontario scioglimento dell’uomo da ogni legge, da ogni legame con la Realtà. Un dramma senza tempo e per questo forse evocativo, dalla sua oscurità, del nostro tempo.
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