Turista da banane
- Autore: Georges Simenon
- Casa editrice: Adelphi
“Vivo con la natura”. “E che cosa le fa, la natura? La riempie di pustole, le dà le coliche!” (Pag. 102)
Perfino i tanti siti specifici sulla fuga in altri paesi, che nella rete suggeriscono, invogliano, spingono a cambiare vita, a trasferirsi all’estero, ad abbandonare tutto per le mete esotiche, invitano alla prudenza.
È essenziale avere una conoscenza di se stessi, comprendere la vera ragione della voglia di fuggire, perché, se il motivo è una difficoltà interiore, questi problemi emigreranno con noi.
Se fossi seguito dalla polizia, potrei arruolarmi nella legione straniera, risolvendo la complicazione della mia vita, ma se ho delle ambasce umane rimangono con me.
Il desiderio di fuggire non è sicuramente nuovo. Oltre ai tanti migranti per necessità, pure quello dei depressi in fuga per paradisi terrestri ha una sua storia.
Negli anni trenta Georges Simenon scrive Turista da banane o Le domeniche di Tahiti (Adelphi, Milano, Aprile 2008).
Oscar Donadieu, francese, ha venticinque anni. La sua famiglia era molto ricca, il padre era un importante uomo d’affari. Purtroppo le traversie della vita hanno rovesciato il suo status. Ora ha perduto tutto, soldi e famiglia. Timido, introverso, sente il peso di un dolore enorme, cerca di combatterlo scappando.
Abbandona la Francia e lo troviamo sulla nave con destinazione Tahiti.
Tahiti è una piccola delizia della natura, una leggenda accentuata dall’avventura e dai racconti del cinema e dell’arte.
Oscar è un solitario, privo di carattere, ancora vergine e senza soddisfazioni delle passioni sessuali. Questo non lo aiuta ad affrontare un nuovo mondo, totalmente diverso, inquinato dagli occidentali residenti nell’isola, i quali si comportano da esseri ripugnanti e laidi:
“Eppure lui sapeva di non essere come gli altri.” (Pag. 33)
Il suo carattere è descritto da Simenon come quello di una vittima predestinata. Il personaggio ha una nostalgia profonda dell’epoca in cui la famiglia viveva da benestante e il padre era rispettabile e ascoltato.
L’altro personaggio centrale è il capitano Ferdinand Lagre. L’ufficiale è stato arrestato sulla sua nave, perché ha ucciso un marinaio con il quale si contendeva la stessa ragazza polinesiana. Pure lui è vittima della maledizione dell’isola.
Il meglio del romanzo è la rappresentazione spietata dei residenti europei: sono la parte peggiore e Simenon si scatena umiliandoli per le loro bassezze. Nonostante abitino a Tahiti da lungo tempo, e probabilmente nessuno di loro tornerà in Europa, non riescono a integrarsi e a comprendere la cultura indigena, anzi, con il loro sgradevole comportamento coloniale, i locali sono sfruttati e trattati come schiavi:
“Erano gli altri, invece, che fuggivano la vita chiudendosi in un’esistenza sordida e gretta!” (Pag. 55)
C’è l’albergatore maleducato, nel cui hotel Oscar è trattato con cafonaggine:
“In questa stagione non ci teniamo ad avere clienti…” (Pag. 42)
Allora il ragazzo si trasferisce in un secondo albergo nel centro della città, luogo di raduno dei francesi, ma è sempre un brutto e desolato hotel. L’albergatore si comporta con noia e disprezzo, soprattutto con il lavorante cinese. Ecco come tratta i cinesi del luogo:
“Tutti, uomini e donne, puzzavano di aglio e di sudore. Il cinese, per di più, puzzava di cinese, e qualunque cosa toccasse puzzava di cinese.” (Pag. 45)
Nel descrivere la vita degli abitanti tahitiani, Georges Simenon tocca le stesse corde del collega inglese, George Orwell, il quale in Giorni in Birmania romanza la sua avventura in Birmania. Entrambi hanno spregio per le persone occidentali, indifferenti nell’apprendere. Annoiati, si trovano ad affrontare la loro vita quotidiana in un paese distante, malati di depressione. Sono apatici alla cultura e alla bellezza naturale del posto. I rapporti fra gli europei sono come dei rapporti incestuosi, perché sono pochi e non possono evitarsi, perciò sono pieni di rancore e scortesia, carichi d’ipocrisia sono destinanti al malessere e alla malinconia.
Oltretutto in Turista da banane emerge il nauseante comportamento degli uomini con le donne locali. Simenon rimane disgustato e lo affronta con la giusta cattiveria:
“… perché quello di enumerare i figli avuti dalle indigene era un pallino del vecchio.” (Pag. 76)
Incapaci d’amare, sono dei corrotti puttanieri pedofili:
“Era una indigena di tredici anni che Raphael aveva adocchiato in un villaggio … pagarle la retta dalle suore finchè non fosse «matura» al punto giusto.” (Pag. 150)
Oscar era diverso: egli era un “turista da banane”, una frase dispregiativa con la quale i colonialisti definivano l’occidentale in fuga per motivi più psicologici.
Se Simenon non ha pietà nei confronti degli abitanti europei, è più tenero, ma non indulgente verso l’ingenuo utopico sognatore hippy.
Ecco come definisce il turista da banane:
“… «turista da banane». … È una espressione che usiamo noi, sulle navi, per indicare quelli che partono per le isole con l’idea di vivere a contatto con la natura, lontano dal mondo, in un posto dove i soldi non servono e ci si può nutrire di banane e noci di cocco… Di tipi così se ne incontrano a ogni traversata… Hanno in tasca giusto quanto basta per arrivare laggiù… Cercheranno una capanna abbandonata dagli indigeni, dopodiché, in capo a qualche mese anemici e ammalati, si presenteranno alla polizia o al consolato per farsi rimpatriare…” (Pag. 18)
Sarà stravagante, però non è gente cattiva. Sono di animo buono, disponibile, cercano solo un posto solitario dove confrontarsi con se stessi. Di sicuro usciranno sconfitti, ma gli unici a subirne le conseguenze saranno proprio loro. Eppure sono bistrattati, insultati, sono considerati come inutili perdite di tempo:
“In fondo sono dei furbacchioni… Tornati al loro paese, si presentano alle redazioni dei giornali con qualche reportage sensazionale, tipo: Vivere di banane per sei mesi… “ (Pag. 35)
“Forse ce n’erano altri cinque o sei inabissato in quel groviglio vegetale, e ogni tanto, nei giorni in cui arrivava la posta, se ne scorgeva un esemplare, fermo davanti gli sportelli e pronto poi a schizzare via come una lepre.” (Pag. 64)
“Arrivano qui pensando di trovare un’isola semideserta dove si può vivere nudi e nutrirsi di banane.” (Pag. 82)
La tipologia umana del mollo tutto e vado a vivere su un’isola deserta è molto diffusa. Ignoravo l’esistenza del fenomeno addirittura negli anni trenta.
È un sogno affascinante, ma se il problema è all’interno di noi, il fardello lo portiamo appresso indipendentemente da dove andiamo.
Simenon attualizza la storia, sembra un accaduto moderno. È un grande scrittore riesce a essere sprezzante e clemente nello stesso momento.
Oscar e il turista da banane hanno la sorte di essere dei martiri. Partito per: “Si immagina di fare qualcosa di straordinario…” (Pag. 107) si ritrova avvilito e infelice :
“… eppure sperava … qualcosa come un cambiamento che gli venisse imposto dall’esterno.” (Pag. 115)
In alcuni passaggi abbiamo un Simenon classico, come in un romanzo di Maigret, in Turista da banane c’è un’attenzione sull’aspetto meteorologico che diventa un’allegoria nel romanzo, perché il molto caldo e la pioggia impietosa sono i simboli di un luogo impossibile per estranei.
Un’altra caratteristica emerge nella differenza sociale. Durante il viaggio in nave, Simenon sottolinea le disuguaglianze fra prima e seconda classe:
“Quelli della prima classe sapevano sempre tutto perché vivevano a stretto contatto con lo stato maggiore, vale a dire il comandante, il direttore di macchina, il commissario e il medico di bordo.” (Pag. 13)
Simenon ha una scrittura elegante, capace di raccontare Tahiti con le tinte della sua Parigi. Le metafore sono ricche d’immagini preordinate:
“Restò qualche istante in silenzio, come si fa in una camera mortuaria dalla quale, per educazione, non si osa uscire.” (Pag. 24)
Il romanzo si può definire corale, con due storie principali, quella di Oscar e del capitano, le quali finiranno a incontrarsi fatalmente.
Per renderlo ancora più partecipativo e ironico, Simenon si diverte con i turisti e li punzecchia. Ad esempio, se vediamo un kilt in Scozia sappiamo di essere di fronte a un business, saremmo dei fessi se credessimo che lo indossino per andare al lavoro in banca.
L’immagine turistica di Tahiti è falsa, appartiene alle agenzie turistiche, a un certo modo di vendere un viaggio esotico. Non bisogna biasimare gli abitanti indigeni, i quali, lungimiranti, si attrezzano a mostrare ai turisti qualcosa d’inesistente, ma che viaggiatori sprovveduti si aspettano:
“… non era forse tutta una messinscena, e le ragazze non avevano lasciato abiti e scarpe in guardaroba per vestirsi di paglia multicolore? E i musicisti non erano quegli stessi uomini che poco prima guidavano i tizi e che più tardi si sarebbero tolte le corone di fiori per rimettersi il berretto bianco con la visiera?” (Pag. 90)
L’autore non ha parole comprensive anche per questa categoria credulona, che parte senza un minimo di approfondimento e pensa di confrontarsi con gente che ancora accende il fuoco con le pietre.
Anche gli indigeni hanno le loro responsabilità: c’è il combattente con i francesi e poi ci sono tante donne bellissime, costrette a un’esistenza di prostituzione.
Però c’è un episodio divertente, raccontato da un Simenon esaltatore d’ironia. Un autobus locale dalle campagne si reca verso la città. Si ferma sotto il cucuzzolo nel quale si era accampato Oscar. Devono consegnargli una missiva e nell’attesa, tutti i passeggeri insieme, iniziano un ritornello canzonatorio e ironico contro il povero ragazzo.
Sono due mondi distanti, forse insopportabili.
Turista da banane o Le domeniche di Tahiti
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