Marabedda
- Autore: Ignazio Buttitta
- Categoria: Poesia
Nel 1928, Ignazio Buttitta dà alle stampe “Marabedda” (poema dialettale siciliano con prefazione di Vincenzo Aurelio Guarnaccia, traduzione di Giuseppe Ganci Battaglia, Edizioni La Trazzera, Palermo), la cui composizione è databile tra il 1925 e il 1926, e forse prima. Era vivo il desiderio dell’autore che Alessio Di Giovanni ne scrivesse la traduzione in lingua italiana. Egli stesso, intorno al 1925 aveva consegnato al poeta di Cianciana il volumetto. Ma la delusione non si fece attendere quando, nel 1927, gli restituì il manoscritto e lo escluse anche da un’antologia di poesia dialettale. Che il rifiuto fosse stato determinato da un parere negativo è cosa di per sé evidente ma non c’è dubbio che ormai entrambi si stavano allontanando per un modo diverso di intendere la poesia. Erano due generazioni a fronteggiarsi: l’austerità grande e luminosa, ma stanca, da un lato; l’innovazione che avrebbe fatto il suo corso in modo lusinghiero.
Diciamo ora che nella raccolta “Marabedda” è prevalente l’idillio pastorale ereditato dai canti popolari d’amore, pur non essendo assenti delle venature sociali. Un lungo, melodioso canto d’amore è stato definito da Francesco Nicolosi questo giovanile libretto; malgrado si tratti di un testo dal tono dimesso e che non abbia avuto molta fortuna, anche perché la critica se ne occupò pochissimo, per Salvatore Di Marco ha un pregio non indifferente:
“in ‘Marabedda’ non c’è affatto un passo indietro, come è stato detto, rispetto a quella prima silloge del 1923. C’è invece un elemento di novità che non va sottovalutato. Infatti Ignazio Buttitta per la prima volta si separa dai modelli tradizionali della forma poetica dialettale sperimentando il verso libero, sciolto, spezzato, che poi ritroveremo trattato con ben altra maestria sia in componimenti classici come Amu lu silenziu (che Marinetti ascoltò incantato dalla viva voce del poeta nella sua casa di Bagheria) che in tanta sua poesia successiva”.
Va da sé che in Marabedda, questo il nome della fanciulla amata della cittadina di Marineo, il lirismo è appassionato:
“Marabedda!! // si mi vulissi beni / iu ti farria rigina di lu celu / e ti purtassi ’mbrazza ’mparadisu. // Si mi vulissi beni / iu chiamirria / tutti l’aceddi chi ci su a lu munnu / pi farili cantari avanti a tia” (“Marabedda!! // se mi volessi bene / io ti farei regina del cielo / e ti porterei in braccio in paradiso. // Se mi volessi bene / io chiamerei / tutti gli uccelli che ci sono al mondo / per farli cantare davanti a te”).
Ignazio Buttitta la vedeva passare presto la mattina quando con la brocca andava alla fonte del paese, ed ecco i versi che ne parlano:
“Vi vìu passari la matina / quannu scinniti versu la funtana, / ammugghiatedda ’tra la mantillina / di pannu scuru: a la siciliana. // Turnati poi cu la quartana china, / ma l’acqua chi mi dati m’avvurcana / vugghiennu ’ntra lu cori e lu macina / comu ’na petra chi si strudi e sfrana” (“Vi vedo passare la mattina / quando scendete verso la fontana, / avvolta nella mantellina / di panno scuro: alla siciliana. // Tornate poi con la brocca piena, / ma l’acqua che mi date mi riscalda / bollendo dentro il cuore e lo macina / come una pietra che si spezza e frana”).
Diversi i personaggi che vi sono descritti a mo’ di bozzetto con l’uso di termini molto realistici. Viene alla mente lo “Zu Turi”: figura carica di sventure e di malanni. Come un carcerato che non trema, egli lotta contro le sfortune della sorte:
“Fuddatu di svinturi e di malanni / di peni granni / spasimi e dulura: / omu di beni / chi tant’anni / lotta / contro l’avvirsitati di la sorti / com’un carzaratu / chi nun trema” (“Carico di sventure e di malanni / di pene grandi / spasimi e dolori: / uomo di bene / che da tanti anni / lotta / contro le avversità della sorte / come un carcerato / che non trema”).
Il quadretto ha una vena ariosa e fresca. Lo stesso può dirsi di quello che presenta la “gna Nunzia”: una poveretta che perché perdette un figlio buono alle frontiere; il dolore adesso non l’abbandona fino a renderla visionaria: se lo vede tornare come allora dopo una giornata di sole e di lavoro e come allora, prima che si sedesse a tavola, dove fumava la minestra cotta, si sente dire: “Mi benedica madre”
“Mischina, / chi persi un figghiu bonu a li frunteri / e lu duluri ora nun la lassa (...) si lu vidi turnari / comu tannu, / doppu un ghiornu di suli / e di travagghiu, / e comu tannu / si senti diri / prima chi s’assittassi a la buffetta / unni fumava la minestra cotta:/ - Sabbenedica matri” (“Poveretta, / che perdette un figlio buono alle frontiere / e il dolore ora non la lascia // se lo vede tornare come allora, / dopo un giorno di sole / e di lavoro, / e come allora / si sente dire / prima che si sedesse a tavola / dove fumava la minestra cotta: / benedicimi o madre”).
L’idillio non sacrifica la quotidianità paesana con le tensioni emotive che ne derivano. C’è anche del Verga in certi versi crudi e ruvidi e ci sono ascendenze colte, riconducibili, secondo Carmelo Musumarra, alla musicalità del notaro Jacopo da Lentini. È un poema in cui si ritrovano costumi e tradizioni che la ricerca demologica di Pitrè, di Guastella, di Salomone Marino aveva messo in luce. Nella generalità, i versi piacquero, mentre da alcuni studiosi il poemetto fu negativamente considerato, tant’è che Pasolini, ad esempio, vide nel testo un esercizio di retorica dannunziana. Poi, la critica non se ne occupò più. Un fatto è certo: Ignazio Buttitta stava intraprendendo un cammino che, liberandolo da sterili sentimentalismi e da languidismi decadenti, l’avrebbe condotto a una poesia decisamente aperta al dramma sociale e al riscatto umano.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Marabedda
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