Pianto di pietra. La Grande Guerra di Giuseppe Ungaretti
- Autore: Giuseppe Ungaretti
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2018
È un libro che guarda a un grande poeta italiano del Novecento, ma non è un testo di letteratura, piuttosto un saggio di storia, una monografia sull’esperienza bellica che ne ha tanto segnato la produzione lirica. Il volume Pianto di pietra. La Grande Guerra di Giuseppe Ungaretti (160 pagine), pubblicato nel 2018 da Iacobelli Editore di Guidonia dopo la prima edizione del 2007, è firmato dal poeta Nicola Bultrini e dallo storico del primo conflitto mondiale Lucio Fabi.
Con Ungaretti, nei luoghi e nelle ore in cui ha vissuto la quotidianità della guerra di trincea cento anni fa. La critica letteraria ha diffusamente esplorato tanto l’impatto con la drammatica permanenza al fronte che la straordinaria produzione poetica ispirata da quegli eventi, nata praticamente in trincea. Nessuno però, prima di Bultrini e Fabi, ha mai collocato il combattente-letterato nel luogo esatto in cui si è trovato ad affrontare il fuoco nemico, i disagi, il caldo asfissiante delle pietraie carsiche in estate e il gelo impietoso invernale. Tutto costantemente in compagnia dei commilitoni, con i quali interagiva, il popolo degli umili soldati, con i quali si rafforzava ogni giorno di più la fratellanza originata dalla condivisione dei pericoli comuni e della condizione psicologica alterata, rispetto a chi continuava una vita normale lontano dalle linee.
I due autori fanno notare come chi si sia cimentato in precedenza sulla poetica di Ungaretti abbia sempre sottolineato il carattere fondante del periodo bellico sulla sua visione poetica, senza mettere tuttavia il soldato in collegamento agli episodi, agli scenari, ai campi di combattimento, ai turni in trincea, che tanto hanno influito sulla sua formazione.
M’illumino d’immenso, ad esempio, il vertice della sua espressione artistica, non è nato genericamente nel corso dell’esperienza di guerra ma esattamente dalla visione del panorama aperto e del mare in lontananza, dalla sommità del Monte San Michele, la modesta altura del Goriziano insanguinata da un anno di combattimenti metro su metro e finalmente conquistata dai fanti italiani il 10 agosto. Tra loro, il soldato semplice Ungaretti, del 19° Reggimento della Brigata Brescia, unità della XX Divisione, a sua volta integrata nell’XI Corpo d’Armata, tra Sagrado e Gradisca.
In una versione in prosa, un collega artista e militare ha descritto la stessa immagine e gli stessi sentimenti davanti a quella vista. Per il tenente d’artiglieria Silvio D’Amico, giornalista-scrittore allora trentenne poi fondatore dell’Accademia d’arte drammatica che porta il suo nome, lo sguardo scavalcava le rovine della guerra e spaziava verso il mare, il Vallone, il massiccio dell’Hermada che sbarrava la strada per Trieste e poi le colline, i monti, le nuvole, l’azzurro, “cose che allargano l’animo in un respiro enorme, specie per chi salga dal budello in cui sinora siamo vissuti”.
Si sono affacciati in tanti dalla cima del San Michele espugnato, felici fino allo stordimento e increduli, dopo gli ultimi cinque giorni di lotta feroce e progressi lenti, che avevano dissanguato i reparti: quattro vite per ogni metro di trincea.
Era da oltre un anno in grigioverde e lo sarebbe rimasto per altri due l’italiano d’Egitto Giuseppe Ungaretti, chiamato ventisettenne alle armi all’atto della mobilitazione generale del maggio 1915, per le ostilità contro l’Austria-Ungheria. Esonerato dal servizio di leva nel 1908 perché residente all’estero (era nato nel 1988, da genitori lucchesi emigrati ad Alessandria d’Egitto) rispose con convinzione al Paese, convinto delle ragioni degli Stati dell’Intesa contro la “barbara” Germania e spinto dalla prospettiva di conquistare una patente di italianità di popolo, offrendo il proprio contributo alla causa risorgimentale patriottica: Trento e Trieste libere. Allo stesso tempo, in lui come in altri giovani borghesi europei la partecipazione al conflitto rispondeva all’ansia virile di affermazione personale e al desiderio di cambiare una società in cui non si riconoscevano.
Dopo i primi mesi lontano dal fronte, per un problema oftalmico (aggregato all’ospedale militare di Biella, venne impiegato anche da infermiere), ottenne d’essere inviato in prima linea sul Carso, nell’autunno 1915, quando le prime offensive cruente di Cadorna avevano aperto vuoti sanguinosi.
Cominciò quindi la sua esperienza al fronte, che proseguirà fino alla fine delle ostilità, anche con la parentesi della permanenza sul fronte franco-tedesco, nel contingente grigioverde inviato affianco agli alleati dell’Intesa, nel programma di fratellanza d’armi che aveva condotto reparti francesi e britannici in Italia.
“Nella mia poesia non c’è traccia d’odio per il nemico, né per nessuno; c’è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza”.
Aveva creduto che la guerra potesse cacciare finalmente la guerra. Una “bubbola", dovette ammetterlo.
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